Il generale Govone a Balaclava
(Questo breve sunto è un adattamento dal mio libro Lo scrittoio del generale. La romanzesca epopea risorgimentale del generale Govone, UTET, Torino, 2006, cap. In Crimea, p. 224 e segg.)
Mezza lega, mezza lega
avanti, una mezza lega,
nella valle della Morte
cavalcarono tutti i seicento.
"Avanti la Brigata Leggera!
Avanti contro quei cannoni!" disse.
Nella valle della Morte
cavalcarono i seicento.
Con queste parole inizia la poesia La carica della brigata leggera di Alfred Tennyson dedicata alla celebre “carica dei Seicento”, probabilmente l’evento più celebre della guerra di Crimea (1853-56) e uno dei singoli fatti d’arme più famosi della storia.
Poesia che termina con i toni squillanti delle ultime strofe.
Quando può svanire la loro gloria?
Oh, la folle carica che fecero!
Tutto il mondo stupì.
Onore alla carica che fecero!
Onore alla Brigata Leggera,
ai nobili seicento
Questa è l’epopea, ribadita in almeno un film, parecchi libri e diffusa ovunque come paradigma di eroismo.
Sull’altro piatto della bilancia c’è il commento del generale francese Bosquet che assistette alla carica e la riassunse in una frase destinata alla celebrità: "C'est magnifique, mais ce n'est pas la guerre".
È magnifico, ma non è guerra.
Breve inquadramento storico: il conflitto era cominciata nei Balcani fra Russia e Turchia per questioni abbastanza futili riguardo a beghe religiose a Gerusalemme, ma era chiaro che la vera posta in gioco fosse l’accesso russo ai mari caldi. Per impedirlo entrarono in campo Francia e Gran Bretagna e lo scenario si spostò nella penisola della Crimea.
Si trattava di una guerra di tipo del tutto innovativo: non una campagna con un obbiettivo concreto (nessuna potenza europea aveva interessi in quella penisola), ma una dimostrazione di forza, alimentata e sostenuta da uno gigantesco sforzo logistico delle due marine. Innovativo anche per molti altri aspetti: uso massiccio delle trincee; prima partecipazione “in diretta” (via telegrafo) degli inviati della stampa e conseguente partecipazione del pubblico di casa alle vicende; prime fotografie di un evento bellico; primo vero servizio medico-infermieristico militare moderno e molto altro. Una guerra, quindi, che, per molti versi, aprì una finestra sul futuro: carattere che, per altro, rimase incompreso per lunghissimo tempo.
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All’inizio, l'impreparazione dell'esercito inglese si tradusse in un cattivo schieramento, originato dall'incompetenza dei comandanti e dalla convinzione che la permanenza nella penisola sarebbe durata solo il tempo necessario perché le artiglierie di terra e di nave facessero il loro dovere contro le difese di Sebastopoli.
I comandi russi, rilevata lo schieramento delle truppe nemiche assai deficitario, tentarono di sfondare verso la località di Balaklava e cercarono di giungere al porto, per isolare le truppe a terra dai loro rifornimenti. Se avessero avuto successo, le conseguenze sarebbero state imprevedibili.
Il fronte inglese resse solo grazie alla proverbiale solidità e al cieco eroismo di un reggimento scozzese – la thin red line, la sottile linea rossa - che riuscì a sostenere impavidamente l'assalto di forze nemiche molto superiori di numero. Gli inglesi replicarono con una carica della loro cavalleria pesante e sostanzialmente i due schieramenti erano tornati alle posizioni iniziali, quando avvenne la già citata carica della Brigata Leggera.
Questo episodio ebbe origine sostanzialmente da equivoci e confusione nella trasmissione degli ordini che affondava in un contesto di puntigli, rabbie e antipatie personali fra i comandanti britannici. Il risultato fu che la Brigata, che avrebbe dovuto solo impedire ai russi di portar via dei cannoni catturati, si avventò in una sorta di corridoio con le batterie nemiche schierate su collinette ai lati e di fronte, che potevano fare fuoco incrociato su chiunque avanzasse in quella direzione. Anche la persona meno avvezza alle cose militari avrebbe compreso che un assalto in quelle condizioni equivaleva a un suicidio.
Invece la carica avvenne e finì ovviamente in un massacro.
In questo grande affresco bellico, non ci concentreremo su un dettaglio: un ometto solitario che per un semplice caso si trovò esattamente al centro dei fatti.
Si tratta di Giuseppe Govone, un ufficiale piemontese che aveva offerto i suoi servigi alla Turchia, e che poi tornerà in patria e avrà un ruolo importante nella seconda d’indipendenza (è considerato il fondatore dei servizi segreti italiani), combatterà contro il brigantaggio, avrà un ruolo decisivo (ma ahimé, ininfluente) nella battaglia di Custoza del 1866 e finirà Ministro della Guerra poco prima della presa di Porta Pia nel 1870.
Sulla prima fase della giornata di battaglia, quella dell'offensiva russa, scrisse a casa che 8000 inglesi avevano resistito a 40 000 russi e che "di 13 generali inglesi presenti, 3 furono uccisi e 4 feriti. Una divisione ebbe tutti i suoi 6 colonnelli uccisi o feriti". I francesi giunti più tardi in soccorso ebbero 1200 caduti su 12000 uomini "Canrobert ferito. Bosquet ebbe un cavallo ucciso (…) La battaglia fu peggio che ad Alma".
Una visione della guerra in linea con i tempi: le qualità militari di un esercito si misuravano in base alla determinazione e volontà dei comandanti sommate a coraggio, fermezza e obbedienza delle truppe. Tutto questo era lo spirito militare e ogni altra considerazione era marginale.
Per quanto riguarda invece la carica dei Seicento, il ruolo di Govone è tutto da raccontare.
Per caso si trovava proprio all'imbocco della Valle della Morte a riconoscere le linee russe (ovvero tracciarne schizzi); un compito di routine per un ufficiale d’allora.
Disegnava nel momento in cui cominciò la famosa carica.
Quando vide partire la cavalleria inglese, non ebbe alcuna esitazione: balzò a cavallo – non era nemmeno il suo – e si unì all'assalto. Come lui fecero un altro italiano presente in Crimea, Filippo Landriani, e un ufficiale polacco.
Abbiamo la descrizione degli avvenimenti scritta a caldo da Govone sullo splendido taccuino inglese che usava durante quella guerra, a fianco della mappa del campo di battaglia.
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"Venne tuttavia l'ordine per scritto di (illeggibile) al gen. Lucker di far caricare i russi. Il reggimento ussari (ill) non esita ad avanzare (ill) nella direzione 2. Io e Landriani e il maggiore polacco La Tour du Pin seguitiamo il reggimento. I russi avevano batterie alla ridotta X, batteria sull'altura 8 e batterie di fronte al loro ordine di battaglia. Non tardò ad aprire il fuoco dai tre lati. Dapprincipio molti scrapnells e granate scoppiano due o tre metri sopra la testa. Poi non tardavano ad aggiustarsi. Ogni colpo portava in quel misero reggimento cavalleria. Uomini cavalli cadevano in terra da ogni lato. Era una grandine. Si sentiva la mitraglia percuotere la terra come i goccioloni di un temporale d'agosto. Io guardo Landriani e dicemmo, fa caldo! Avanti, avanti, sempre avanti! Ma (ill) maggior perdite. Poi non vedo più Landriani. Poi il mio cavallo cade, io insieme. Un ferito cade avanti a me ed è trascinato per un istante nel turbine di quelli che avanzano. Guardo il mio cavallo. Era ferito alla gamba destra. Rimonto il cavallo fa due passi e cade ancora. Allora torno indietro come facevano molti uomini smontati che abbondavano. Passando vedo Landriani a 20 passi. Era coricato le gambe verso i russi, il corpo verso di noi. Mi dice qualcosa sorridendo che non compresi o non ricordo. Se era ferito, lo era alle gambe. Eravamo forse a 400 passi dai russi che gettavano mitraglia. Le batterie di destra già tiravano dietro a noi. Ero nell'impossibilità di fare qualcosa per Landriani. Però corro a un cavallo inglese senza cavaliere. Monto il cavallo è ferito né può avanzare. Scendo. Un altro reggimento inglese arriva. Un ufficiale mi punta la sciabola e mi dice rendez vous prisonnier. Rispondo Mon cheval vient d'etre blesse. Ah c'est bien dice l'altro passando. Io mi getto fra un varco esistente nello squadrone per non essere rovesciato. Passo, non vedo più Landriani... allora non penso più che a ritornare. {Vede passare il suo berretto, evidentemente colpito da un proiettile} Un colpo mi ha rovinato la frangia sinistra della spallina e mi fa una contusione che risento gravemente la sera e nella notte. Corro corro per fare 1500 o 2000 passi a piedi. Mi mancano le forze. Vedo uno squadrone nemico che scende le alture a destra, temo cadere nelle sue mani. Mi faccio coraggio e corro ancora. Ho raggiunto le nostre posizioni. Trovo un soldato inglese che mi offre un cavallo che menava a mano, di qualche ferito o morto. {si mette un fez} Mi incammino per vedere Landriani ma era troppo presso ai russi. Giro e rigiro fino a che mi decido a ricercare il gen. Canrobert, in caso Landriani fosse là. Canrobert e tutti si felicitano con me".
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A parte la freschezza della descrizione e l'interesse indubbio del racconto della famosa carica vista dall'interno, come si può commentare tutto ciò?
In primo luogo anche Govone sentì di averla fatta grossa e, come aveva già in passato quando si metteva troppo a rischio, evitò di parlarne al padre.
Nella prima lettera che scrisse a casa, tre righe scarabocchiate in tutta fretta il giorno dopo l'azione, si limitò a dire "Ieri Landriani cadde in mano ai russi. L'assedio dura ancora. Io sto a meraviglia".
Passarono alcuni giorni e, dalla tenda dove si diceva costretto da una lieve indisposizione, aveva la faccia tosta di descrivere la carica come una cosa estranea, che riguardava solo il suo amico Landriani, il quale "fu preso dai russi nel combattimento del 25/10 una terribile carica della cavalleria inglese, che si avanzò in mezzo a tre batterie d'artiglieria russa. Totale 30 cannoni che incrocicchiavano i fuochi. Carica unica nella storia. La cavalleria inglese fu distrutta. Di 650 u[omini] ne ritornarono 200, ma le linee e batterie russe furono passate da cima a fondo".
La cosa più interessante per noi è forse cercare di capire cosa fosse successo nella testa di questo ufficiale italiano.
Perché mai un piemontese - quindi estraneo alla guerra -, di fanteria e di stato maggiore – quindi che aveva nulla a che fare con la cavalleria – abbandonò i disegni che stava facendo, saltò a cavallo e partecipò a una carica, che doveva apparire sin dall'inizio per lo meno disperata?
La prima cosa che salta agli occhi è che per Govone la grandezza di quella carica non fu legata al successo o all'influenza su altri eventi, ma al semplice fatto che essa fosse avvenuta. Cioè, venne condotta fino in fondo, senza farsi scoraggiare, nonostante fosse assurda come ordine e disperata come esecuzione. Erano le virtù militari dell’epoca portate all'apoteosi o all’assurdo. I termini che usò nella lettera sopraccitata furono: una terribile carica - carica unica nella storia - la cavalleria inglese fu distrutta - le linee e batterie russe furono passate da cima a fondo.
Per il Nostro quindi la carica della brigata leggera non fu "uno dei più famosi disastri militari di tutti i tempi" o "uno dei più clamorosi insuccessi della storia militare" come quasi unanimemente la storiografia moderna la considera, ma l'espressione alta delle virtù belliche.
Questo però ci spiega come Govone vide e valutò la carica, non perché ci partecipò
Dobbiamo allora ricorrere ad altri ragionamenti.
Per prima cosa dobbiamo dire che noi abitanti del XXI secolo non abbiamo idea di cosa potesse significare una carica di cavalleria. Non possiamo comprenderne lo slancio, il rumore, la fisicità, l'imponenza. Un assalto di mezzi corazzati potrebbe esserne il paragone attuale: la terra che trema, il senso di ineluttabilità della vittoria dell'assaltante enorme, rumoroso, invincibile. Ciò nonostante, pur nella sua tragica invincibilità, il corazzato non possiede un elemento sostanziale della cavalleria: il fascino sociale e tradizionale.
L'arma a cavallo era la specialità che, per tradizione di corpo, estrazione sociale dei suoi elementi, eleganza e impatto sulla fantasia, racchiudeva in sé tutta l'estetica e la gloria della guerra.
Per il soldato ottocentesco, la carica di cavalleria era il clou della battaglia, l'elite che scendeva in campo con tutta la potenza e la bellezza della sua forza.
Non era vero, ovviamente: da tempo oramai l'arma a cavallo aveva abdicato a questo ruolo e nella pratica della guerra soddisfaceva ad altri compiti – la ricognizione, l'inseguimento, la copertura - sempre importanti, ma meno spettacolari. Però questo non aveva scalfito il suo fascino.
Govone era figlio del suo tempo e, come probabilmente tutti quelli con le spalline, si sentiva in qualche modo legato al mondo della cavalleria, ai suoi valori e alla sua epica. Benché fosse di fanteria e passasse più tempo con la matita in mano che non con la sciabola, il suo ego profondo rispondeva agli stimoli e alle suggestioni della carica a cavallo.
Non dobbiamo, poi, dimenticare l'amore diffuso fra gli ufficiali per i cavalli: ai tempi la passione per l'equitazione era sì una questione di mode, di prestigio personale, di status sociale, ma sotto sotto risuonava pur sempre delle suggestioni del galoppo del cavaliere contro il nemico.
Bellezza terribile della carica, tradizione epica della cavalleria, fascino dei cavalli nel loro momento di massima gloria: tutte queste cose dovettero agitarsi nel cuore e nel cervello di Govone, ma non sono ancora sufficienti a spiegare perché abbia considerato quell'occasione così unica e imperdibile, da rischiare la vita pur di parteciparvi.
Forse nella testa del Nostro scattò la stessa molla che era scattata mesi prima durante l’assedio di Silistra, quando era salito per tre volte sui bastioni a un tiro di schioppo dal nemico. Lì però aveva un lavoro da compiere e un senso di esibizione nei confronti degli ufficiali inglesi ("ho mostrato a certi inglesi che i piemontesi sanno stare davanti a loro e anche qualche passo più avanti").
A Balaklava invece il suo gesto fu del tutto autoreferenziale: dobbiamo quindi accettare il fatto che per lui – e probabilmente per molti ufficiali come lui – morire durante una carica di cavalleria era un rischio assolutamente accettabile. Il premio, nel caso si fosse sopravvissuti, era un ricordo da portarsi dietro per tutta la vita.
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